mercoledì, maggio 10, 2006

Anche l'agricoltura vuole i suoi Profeti

I profeti, usando le parole di Giorgio DeCapitani, “sono pochi, mal sopportati e capaci di sviscerare quelle verità che rompono lo status quo e generano una diffusa insofferenza negli individui”. Tuttavia, è oggi più che mai necessaria la forza e la volontà di fare nuove proposte a lungo termine e di seguire i pochi, buoni e eretici esempi di alcuni oppositori del paradigma post-industriale o, per dirla con Pierre Bordieu, del pensiero unico. Mai come oggi s’è avuto bisogno delle intrepide lotte di Alce Nero e Gino Girolomoni, dei preziosi esempi di Pierangelo Comi e Giancarlo Colombo o di chiunque abbia esperito modelli di produzione - e di vita - alternativi al modello unico. Gli agricoltori dell'ultimo secolo hanno aderito, non incolpevoli e senza porre resistenza, al nuovo meccanismo dell’industrializzazione agricola, ma non per questo tutte le colpe devono gravare sulle loro spalle. Il problema andrebbe piuttosto riformulato a più ampio raggio, non eludendo le responsabilità di un modello sociale, dove nulla conta se non ha valore economico. Ad uno sguardo più attento, la situazione fa emergere tutte le responsabilità di un sistema economico e sociale che non ha permesso all’agricoltura di svilupparsi, guadagnare il giusto spazio e operare adeguatamente, non ha concesso ai suoi attori il riconoscimento del ruolo di illuminati giardinieri (Turri, 1998). Il rapporto tra uomo e natura attualmente non è logoro, ma trascurato, relegato al dimenticatoio e nessuno si sognerebbe di dare valore utilitaristico ad una professione che si occupi di natura e gestione del territorio. Lo dimostra la crescente tendenza a comportamenti irresponsabili perpetrati nei confronti del bene ambientale, come l’abbandono dei rifiuti lungo le strade e nei luoghi di vita, la creazione di discariche abusive a cielo aperto; atteggiamenti di totale insensibilità che dopo due millenni di storia della civiltà umana dovrebbero almeno destare una forte e diffusa indignazione. La progressiva divaricazione tra le pratiche e la teoria, tra le azioni e le motivazioni ad esse soggiacenti, tra le mosse e la riflessione, la crescente mancanza del feed-back positivo che aveva sempre regolato l'agire sulla base dell'esperienza, hanno ridotto l’agricoltura alla fredda applicazione di formule matematiche e determinato un erosione della carica vitale che in misura positiva e negativa caratterizzava la vita dei campi. Lo dimostrano le formule di concimazione che calcolano i quantitativi di concimi da applicare alle coltivazioni, lo dimostrano le monocolture, lo dimostrano gli interventi programmati di diserbo. L’uomo ha smesso di guardare alla terra credendo che la meccanica e la cibernetica - la dimensione inorganica - potessero prendere il suo posto anche nei campi e tra i filari di alberi, l’agricoltore di oggi ha smesso di osservare e imparare dalla natura, la sua attività è un’attività di prevalente gestione e controllo della dimensione inorganica, le macchine mediano il rapporto tra gli esseri viventi e, se in altri casi mai lo fosse, questa non è una soluzione ammissibile in agricoltura e rappresenta un campo scivoloso a cui approcciare con cautela. Il contadino di un secolo fa, agiva in virtù della propria conoscenza della terra, conosceva i ritmi e le forme delle stagioni come le proprie tasche, agiva e lo faceva senza i coadiuvanti, senza immettere altre energie, in un precostituito sistema vivente. Molti sottolineeranno che le produzioni di un secolo fa sono risibili rispetto a quelle odierne, che molti di noi oggi morirebbero di fame se l’agricoltura fosse così poco produttiva ed io non posso che dare ragione a costoro. Del resto la questione di fondo disvela tutta la sua problematicità proprio a partire dalla triste constatazione di Konrad Lorenz (1988) che la terra non può reggere un tale ritmo di produzione. Le istituzioni della modernità solida, le tradizionali forme di controllo e promozione, si logorano ogni giorno di più in una stentata e affannosa rincorsa alle forze del mondo globale, che sono ovunque ed in nessun luogo, che dominano il mercato e spostano interessi incuranti dei limiti geografici, politici, legali, culturali e sociali. Alla stessa stregua è ridotta oggi la natura, sfruttata e piegata ai voleri della produzione, sovralimentata e sovraccaricata da modalità che rasentano spesso il suicidio della specie. Ulrich Beck nel suo libro più importante, “La società del rischio”, ribadiva che il potere auto-rigenerante insito nella natura, che aveva assicurato la vita di tutti gli esseri viventi sino a qualche decennio or sono è in questi anni messo a dura prova, alla natura è chiesto di superarsi, alla natura si vogliono cambiare i connotati e questo avvicina il rischio della catastrofe ecologica. Il sistema naturale basato sulla luce solare e sulle sue manifestazioni indirette (energia idroelettrica, eolica, ecc.) non può certo riadattare le proprie misure al ritmo dell’uomo che attualmente richiede un’energia infinite volte superiore a quella prodotta dal sole. Un sistema sovraccaricato è un sistema che va incontro ad un rapido deterioramento, come il motore di un’autovettura mantenuto per lungo tempo fuori giri, velocemente la natura è destinata a scoppiare, a lasciare a piedi l’incauto conducente. Quest’ultima affermazione, che ha un puro scopo esemplificativo, contiene in sé qualcosa di profondamente sbagliato, una concezione fortemente deleteria quanto ben radicata nella nostra cultura occidentale, ovvero la supremazia dell’uomo sul mondo. L’idea che l’uomo potesse esercitare un dominio sulla natura non è recente e trova origine nel momento in cui l’uomo provò coscienza di sé e nell’esperire sé stesso delineò la differenza tra lui ed il resto dei viventi sulla terra. Idea questa, che ha avuto modo di rafforzarsi soprattutto negli ultimi due secoli di storia, alla luce dei successi di scienza e tecnica e della conseguente nascita nell’uomo di un senso di sicurezza legato al progresso e al fatto di poter avere l’illusione dell’assoluto controllo, l’idea di sapere perfettamente dove si stava andando e avere chiari obiettivi per il futuro. L’uomo di oggi perde solo poco dell’inguaribile ottimismo accumulato negli ultimi secoli, non presagisce sventura negli anni che verranno, inquina, spreca, sciupa, totalmente incurante che gli effetti delle proprie azioni possa un giorno ricadere su sé stesso e sulle sue proprietà. Usando ancora una volta le parole di Fromm si sta palesando una nuova e autoreferenziale religione, il culto della tecnica. L’uomo è disposto a credere, tramite il proprio ingegno, di fare danni e ripararli infinite volte, di affrancarsi dai suoi limiti senza conseguenze. L'uomo di oggi esprime se stesso nei suoi strumenti, utilizza le auto come estensione del proprio Io, trova nelle doti dell’auto o di quel che consuma le proprie doti, esprime attraverso strumenti banalizzanti la propria potenza. L’uomo d’oggi vive nella parziale illusione che scienza e tecnica possano garantirgli un artificiale paradiso in terra, un inalienabile accesso alla felicità, la liberazione definitiva dalla fatica e dalla penuria e la difesa da ogni sorta di negatività e male. La prospettiva di lungo termine pare invece meno brillante, continuando di questo passo le macchine prenderanno presto il posto di un uomo sempre più alienato e relegato e gli effetti negativi autoprodotti ne firmeranno la condanna a morte. "L’uomo potrebbe essere avvelenato e decimato dalle sue stesse mani" scriveva nel 1978 Konrad Lorenz. Da queste ultime parole di Lorenz un'unica questione emerge forte e chiara, si necessita di rivedere la propria posizione per il futuro, riconsiderare il modo di evolvere, l’avanzata della civiltà umana. Da queste riflessioni sparse emerge però un dato univoco, si ottiene un solo risultato: la necessità di cambiare rotta. Morta l’inutile fede nella tecnica, all’uomo toccherà riconsiderare e riequilibrare il proprio modo di essere al mondo ed impostare progetti di lungo termine, che rivedano i modelli di sviluppo presenti, svincolandoli dal gravoso peso del dover avere, ottenere, massimizzare e dalla viziosa catena del consumismo frenetico basato sul capriccio ed unica soluzione ad un vuoto endemico, ad un profondo ma inconfessato disagio sociale.

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