mercoledì, marzo 28, 2007

Vinicio Capossela - Camera a Sud

Tra moderno e post-moderno
Sono sfumati i tempi in cui all’artista veniva dato il compito d’interpretare il ruolo di – e spesso di essere – anima tribolata, alle prese, affaccendata, con la vita precaria e disordinata, di destreggiarsi con progetti di lungo periodo che non gli riuscivano semplici per voluta natura. Quanto era affascinante la dissoluta vita dell’Artista, eternamente in bilico, tra essere e apparire, tra emozione e sensazione. Ma i tempi odierni sono altri. La solida struttura, l’ordine costituito dai forti e arroganti poteri superiori, dalle cariche moderne, contro cui l’Artista ha lottato con strenuo ardimento, non ci sono più, oggi hanno lasciato il campo di battaglia, le istituzioni si sono liquefatte davanti al fuoco di un capitalismo extra-territoriale, dicono “globalizzato”; un campo vuoto, senza punti di riferimento: liquido. All’attuale stato dell’arte, un gesto di coercizione risuonerebbe come una carezza, come un gesto dal calore umano, la dimostrazione che ancora qualcuno sopra di noi e per noi, guida l’azione collettiva, orienta il lungo periodo. La precarietà e l’estrema natura effimera delle cose, delle relazioni, dei progetti è per tutti oggi; dobbiamo essere artisti, la libertà è gratis, anzi è meglio, da meno spese ai governi e tutti possiamo assaporarne il gusto agrodolce. Artisti, per forza o per amore, pare l’unica strada per vivere nell’extra-territorialità che tutti prende e tutti stritola, nella globalizzazione che ci toglie ogni sicuro punto di riferimento, negandoci la possibilità di un qual si voglia progetto collettivo di medio termine.
Nostra madre l’Incertezza
Leggo “1994” su questa copertina sgraziatamente purpurea, poco più di un decennio, ma quanto più tempo è passato, caro Vinicio… Eri ancora lì, appoggiato e sonnacchioso, a cospargerti di fumi e fascino da bohemien d’oltremare, suonavi ancora certe note e parole, ti rendevi affascinante. Certe atmosfere descritte da Capossela in questo bel disco, lo consegnano già all’archivio storico, ad un passato recente ma profondamente diverso. Questo disco è storicizzato dalle sue stesse parole entro gli ultimi barlumi di una tarda modernità. Le “stagioni” cantate da Vinicio, che hanno il vuoto dentro al frigo ed un malox per amico, le veglie infinite entro gole di notti buie e fonde, a noi uomini della post-modernità liquida, oggi, sembrano simpatici clichè, fan comparire quel sorriso trattenuto di chi sente parlare (altri) della propria quotidianità.
Relitti d’un tempo trascorso
Dopo questa lunga introduzione, anche un po’ inutile, possiamo provare ad abbozzare un ritratto di questo giovane Vinicio e tracciare i confini della sua opera color porpora. Camera a sud, ci restituisce un Vinicio ben diverso da quello conosciuto negli ultimi apprezzati album. In questo buon lavoro il "Corvotorvo" rimane ancora entro un registro di pieno cantautorato italiano, degno ma anche assai rigoroso, privo dei magnifici e fantasiosi ornamenti di momento. Vuoi il cast di musicanti, vuoi l’arrangiamento di una mano prevalente come quella di Antonio Marangolo - ambedue ereditati dalle scuderie Contiane - il Capossela pare ben più rigido e inquadrato dietro a quel piano, dell’artista barocco e post-moderno che calca oggi i nostri palchi vestito da Minotauro o da chissà che altro. Qualche tinta leggermente sud americana, qualche milonga, un certo piglio swing, ma in definitiva l’occhiolino è strizzato alla nostra tradizione e nulla è nuovo rispetto ai primi lavori notturni. Oltre agli inevitabilmente (accompagnato da tali sapienti mani) raffinati arrangiamenti, melodie e parole son già farina del suo copioso e prolifico sacco, denotano una caratura melodica mai scontata o banale, assai poco soporifera e sopra la media, come un potenziale letterario buono, ma non ancora affinato, snello, leggero, giocoso ed armonico, come l’odierno. Le tematiche vertono tutte attorno alle fatiche e alla precaria condizione in cui la vita ci getta, tra l’ironia di canzoni, come la popolare Che coss’è l’amor?, viaggio tra “gl’inferi dei bar” che richiama un certo gusto per la descrizione – che (visione fittizia e personale) ho sempre associato a Boogie di Paolo Conte - o Il mio amico ingrato, istantanea di un matrimonio al limite dell’impudenza, ed altri momenti più lirici e romantici, come la struggente Non è l’amore che va via o Amburgo, la risplendente Fatalità. Delicata filastrocca descrittiva è anche l’omonima Camera a sud che ci offre un punto di vista privilegiato, una finestra, da cui osservare un mezzogiorno mediterraneo tra tufo, gelsomini e tamerici.
Talento sfuggente
Inizio tiepido per un talento assoluto che sarebbe andato spogliandosi negli anni a venire. Oggi Vinicio Capossela è uno dei migliori artisti italiani ad avere ancora mani di piuma e voce di sale, con quel suo bel gusto per la parola raffinata, per la melodia più tradizionale, per le immaginifiche suggestioni da cinematografo, con i suoi valzer asburgici e tutto quel corollario di fonti che sapientemente sa suggerire senza cingersi in definizioni. Questo pregevole lavoro, che pur non consiglio, dimostra una volta ancora come, anche senza l’ausilio di ripieghi meschini, si possa giungere ad un egregio risultato di nobiltà artigiana, forse artistica. Mi chiedo spesso quale sia la linea che separa produzione artistica e produzione artigianale. Mi domando quale sia il confine labile, soggettivo, vacuo, che ci faccia indicare l’una e l’altra cosa. Come Sant’Agostino scriveva nelle Confessioni riguardo al tempo, personalmente intuisco la differenza tra quale sia arte e quale sia artigianato, ma non sarei in grado di esprimerla, di darne una definizione precisa, di tracciare una nitida linea di demarcazione.

domenica, febbraio 11, 2007

L'ULTIMA ESTATE DI KLINGSOR di Herman Hesse

Lasciando parzialmente le giovanili velleità romantiche, nel 1919, Hesse, in completa solitudine, si trasferisce nel piccolo borgo di Montagnola nel Canton Ticino, rifugio dalla Germania nazista e splendido pertugio da cui vagheggiare l’amata Italia, con i suoi colori pastello e le sue tiepide giornate di sole. L’esotico (agli occhi di un tedesco) paesaggio ticinese, con la sua natura vitale e policromatica, i suoi profumi, la pacata cordialità dei luoghi e della gente, riversa tutta la propria suggestione nella penna del grande scrittore, che compone uno dei quadri più deliranti e immaginifici della sua intera esperienza. Il naturalismo caratterizzante le opere acerbe viene qui sgretolato, la struttura compositiva e il linguaggio intessono una trama fortemente espressionista che lascia spazio al colore, alla forma, e alla percezione, in un rutilante acquarello di essenze splendenti.

Un’estate infuocata ed intensa era iniziata. I giorni roventi, seppure lunghi, se ne fuggivano avvampati come bandiere in fiamme, alle notti di luna brevi e afose si alternavano brevi e afose notti di pioggia, le settimane splendenti trascorrevano deliranti come rapidi sogni, sovraccarichi di visioni.

Iniziava così l’ultima estate del pittore Klingsor, anima irrequieta e discussa, un ultimo intenso sorso di vita - vita ebbra e folle - vissuta fino in fondo, come un bicchiere di vino rosso robbia, sino all’ultima goccia. Il pittore ormai quarantaduenne ritorna, in quell’ultima stagione della propria vita, nei luoghi “mediterranei” e caldi in precedenza vissuti e vagheggiati, torna per abbandonarsi in una ultima seducente e vivida estate, un’estate in cui perdersi nell’intensità delle visuali del paesaggio, nelle note intense di un vino cinabro, nella conturbante sensualità di un nuovo amore, nella folle poesia dei colori. Profumi, sapori, esotismo, i moduli e gli stili di Hesse convergono in quest’opera pittorica dal tratto intenso. Si mischiano nell’aria delle serate trascorse desideri sensuali e presagi di morte, brama del futuro e coscienza della fine. Uccidere la vita con le proprie mani prima che l’ombrosa civiltà occidentale la trascini con sé, nel suo incipiente declino, nel suo lento tramonto. Klingsor nelle numerose lettere, nel fresco profumo dei crotti, nel succo d’uva sincero, nelle vivande frugali, nell’annullamento dell’Io nella natura, è sempre perseguitato dal presagio e dall’ombra della morte e solo vivendo, vivendo dissolutamente, sembra riuscire a tener colmo, almeno per un poco, quel vuoto.

Brindarono; cupa l’ombra sorrise dalle sue profonde occhiaie e d’un tratto qualcosa attraversò la sala, come un vento, come uno spirito. D’un tratto la musica fu muta, all’improvviso, come dissolta, i ballerini erano volati via inghiottiti dalla notte e la metà delle luci si era spenta. Klingsor diresse il suo sguardo alle porte scure. Fuori stava la morte. La vedeva campeggiare. La fiutava. Come gocce di pioggia sulla polvere di una strada di campagna, questo era l’odore della morte. Allora allontanò da sé la coppa, spinse via la seggiola ed uscì lentamente dalla sala, andandosene fuori, nel giardino cupo, solo, nell’oscurità, mentre lampi guizzavano sulla sua testa. Il cuore gli pesava greve nel petto, come pietra su una tomba.

Il racconto prosegue su linee altere, nella sua sottile denuncia, pervaso da una hessiana contrapposizione ai valori borghesi, all’uomo occidentale: stanco, avido, sfrenato, puerile, impietosamente fermato da Klingsor nell’ultimo autoritratto, poco prima che venisse la morte. Pochi giorni chiuso nella bellezza dell’abitazione di pietra (Casa Camuzzi?), dedito solo alla frantumazione, alla scomposizione ossessiva del proprio Io, al ritratto blasfemo della sua identità e con essa dell’uomo della tarda civiltà: il moribondo uomo europeo che vuole morire, pieno di una infantile paura della morte e pieno di una spossata disponibilità a spegnersi. In quei giorni di furibonda tensione Klingsor, diviene - tipico alter ego Hessiano - crucciato e mosso dagli scandalosi avvenimenti che scuotevano la schiena della vecchia Europa, ferito nella sua fanciullesca sensibilità. Presagisce l’ora ormai tarda, gode il tramonto dal suo spoglio davanzale di pietre, e nel verde tramonto del sole, vede quello dell’Uomo e nel tramonto dell’uomo, vede l’avvento di una nuova speranza, di una nuova rinascita.

“Ognuno ha le sue stelle” disse Klingsor lentamente, “ognuno ha la sua fede. Solo ad una cosa io credo: al tramonto. Viaggiamo in una carrozza sull’orlo dell’abisso e i cavalli si sono fatti ombrosi. Noi siamo al tramonto, tutti, noi tutti dobbiamo morire e rinascere, la grande svolta è per noi giunta. E’ dappertutto la stessa cosa: la grande guerra, la grande trasformazione nell’Arte, il grande crollo degli stati dell’occidente. Da noi, nella nostra vecchia Europa, tutto ciò che di buono e di peculiare avevamo è morto; la nostra bella ragione è divenuta follia, il nostro denaro è carta, le nostre macchine sanno soltanto sparare ed esplodere, la nostra arte è suicidio. Noi tramontiamo, amici, questo ci è dato in sorte… ”

Hesse in queste poche pagine supera sé stesso, supera le tradizionali dicotomie che avevano caratterizzato la produzione precedente (Amicizia, Il miglioratore del mondo, Sotto la ruota, Demian) e successiva (Narciso e Boccadoro, Il lupo della steppa), scioglie le cristallizzazioni legate alla descrizione nitida e semplice, per avventurarsi in un magmatico policromatismo visivo, in una ridefinizione continua dell’identità, non più scissa da attrazioni bipolari, ma confluente nell’Uno e nel tutto. Come poi in Siddartha (1922), anche in questo vivissimo racconto si prefigurano soluzioni vicine all’olismo delle religioni orientali, ad un tutto organico e interrelato, ad uno sconosciuto Panta rei, limpidamente riconoscibili nell’immagine del grande fiume osservato da Siddartha, nelle pagine conclusive dell’omonimo romanzo. Soluzioni che qualche studioso si affrettò a definire semplicistiche e adolescenziali (L. Mittner, C. Cases), qualcun altro, come “un'argentea ragnatela di banalità” (A. Chiusano), trascurando la portata emotiva, il trasporto, che quelle stesse pagine suscitavano, ignorando, non incolpevolmente, i laceri postumi della prima guerra mondiale, e la precaria instabilità psichica in cui giaceva Hesse, separato dalla famiglia e avviluppato nella sua malattia. Per via della loro reale essenza, della loro natura analitica, adolescenza e semplicità, nello scrittore tedesco, non possono certo essere ricondotte ad accezioni tanto riduttive. Hesse mai potrà essere definito uno scrittore per adolescenti, ma per tutta l’esistenza, adolescente egli stesso, cosciente vittima di un cronico stato di purezza infantile. Adolescenza, purezza e infanzia, nel senso dell’intransigenza e dell’ostinazione, del mettere in perenne discussione gli ambigui compromessi, le convenzioni tramandate e le accomodanti certezze della maggioranza. Lo stesso Hesse scriveva in una delle lettere del suo sterminato epistolario: “Non esiste altra via per lo sviluppo e l'attuazione che l'interpretazione, quanto più possibile perfetta, del proprio essere … Dato che tale strada è resa difficile da molti ostacoli, sia morali che di altro genere, e dato che il mondo ci vede più volentieri standardizzati, uniformati e deboli, che non caratterizzati da una forte personalità, chiunque si differenzia dalla media, non può fare a meno di affrontare una dura lotta per la vita … Chiunque crede di poter non tenere conto delle convenzioni e delle esigenze della famiglia, dello stato e della comunità, deve essere pienamente consapevole che lo fa a proprio rischio”. Ed Hesse non smise mai di credere nella sua letteratura vivida ed emozionale, non smise di credere che l’espressione chiara e limpida potesse rapire più cuori e toccare più anime, non si fermò dinanzi al rischio di rimanere solo, espose sempre la propria anima nuda agli occhi forestieri. Nell’estetica tradizionale esistono due modi per avvicinare l’opera d’arte: un approccio cognitivo e un approccio relazionale. Nel primo caso l’apprezzamento è guidato dalle conoscenze razionali acquisite sull’opera, nel secondo l’osservatore riduce la distanza dall’opera osservata, lasciandosi alle emozioni, al trasporto e alle vibrazioni che l’opera stessa sa trasmettere, diviene parte attiva e compresente, riempie l’opera, la parola, la nota di significati propri. Ecco, allora, la chiave di lettura adeguata per cogliere appieno la raffinata natura dell’Hesse scrittore e la sensibilità intellettuale dell’Hesse uomo: un approccio basato sull’empatia e sulla capacità di abbandonarsi all’Arte come pura espressione del sé. In uno dei suoi saggi letterari, lo scrittore tedesco, quasi a prender posizione verso le critiche che i sacerdoti e gli accoliti della narratologia e dell'ermeneutica muovevano (ed avrebbero mosso) alle sue opere, affermò: “La bramosia di venire a capo dell'arte e della poesia mediante analisi critica ha ridotto notevolmente la capacità elementare di sapersi abbandonare, di saper guardare e di saper ascoltare. Interpretare è un gioco dell'intelletto, un divertimento spesso, assai bello, che si addice a persone sagaci, che non hanno familiarità con l'arte, ma che possono leggere e scrivere libri sulla plastica dei negri o sulla musica dodecafonica, ma non trovano l'accesso all'intimo di un'opera d'arte, perché si fermano davanti alla porta, tentano di aprirla con cento chiavi e non si accorgono che è aperta”.

giovedì, gennaio 11, 2007

ELEGIA - Paolo Conte

SIAMO UOMINI AL TRAMONTO
Dovremmo esserne consapevoli, questi tempi in cui ardono le ultime braci della modernità, hanno vissuto di una progressiva separazione tra pratiche e consapevolezza. Lo sviluppo dell’era cibernetica, la dissoluzione dei solidi punti di riferimento, di una società come rigida struttura, la sostituzione della stessa con reti fluide di relazioni instabili ed effimere - non solo tra gli uomini ma tra gli uomini ed il corollario ambientale e materiale che li circonda - hanno portato ad un progressivo smarrimento dell’Uomo e della sua naturale tensione a sviluppare le facoltà umane, la creatività, o per dirla con Fromm “l’impulso alla vita”.
MUSICA, PLASTICA ED ALTRI SOTTOPRODOTTI CULTURALI
In questa progressiva divaricazione venne coinvolta anni or sono anche la musica come naturale prodotto della creatività umana e delle attitudini vitali. La composizione, la realizzazione e l’arrangiamento di opere musicali furono vittime inconsapevoli di un duplice fenomeno di progressiva alienazione: la separazione tra un uso frequente e improprio della tecnologia e la perdita di consapevolezza nell’uso stesso. La musica degli anni ’80 era già preda di ingloriose traversie e ubriaca di distorsioni plastiche e sonorità banalizzanti, tuttavia serbava ancora punti fermi, una solida base di riferimento e non era vittima dell’anomia che avrebbe caratterizzato la decade successiva, anzi piena di spunti allettanti. Anomia e alienazione; Georg Simmel, il grande maestro della Sociologia tedesca, vide molto lungo quando agli albori del 1900, indicò in questi due termini due delle malattie dell’urbana modernità. L’uomo blasè, come lo definiva lui stesso, incapace di distinzione tra valori, appiattito e inerte si manifestò nella sua pienezza con un secolo di ritardo. La musica degli anni ’90, fu portata sulla strada virtuale verso il suo stesso abbandono materiale, verso un progressiva dissoluzione dei generi in un primordiale liquido inorganico, che rimuovendo ogni confine, aboliva le differenze e con esse ogni capacità seduttiva. La musica frutto della mente e del cuore dell’uomo si è progressivamente reificata ed incarnata in un prodotto omogeneizzato da offrire all’uomo, ma lontano da esso, vuotata del suo senso primigenio di espressione dell’uomo per l’Uomo.
BARLUMI DI LUCE, RELIQUIE E SOPRAVVISSUTI
Vi sono fortune e differenze – alternative - basta soffiare sulle braci morenti perché qualche scintilla si levi nell’aria blu della sera, perché il dolce suono del crepitio indugi ancora un poco alle nostre orecchie. Ci sono lavori che entro i barlumi di questa tarda notte moderna sfavillano, ristorano gl’animi musici e i nostri cuori, risplendono. Una di queste perle plumbee, di grande eleganza, è questa Elegia che Paolo Conte ci regala proprio all’avvento di una nuova epoca, forse una nuova notte e forse ancora più buia. Fuori piove, è un mondo freddo.. e allora Conte ci regala un angolo di raffinatissima suggestione, di note di luna, uno dei suoi lavori più stimati e notturni (dopo l’omonimo Paolo Conte del 1986) rigorosi si, ma austeri e misteriosi, affascinanti. L’Africa non è lontana come sembra, si nasconde e sfuma tra le tinte avorio dei tasti del pianoforte a coda lunga. Le immagini corrono come in un viale d’inverno o in un cinematografo d’inizio secolo. Questa composizione intesse aromi e pregiate corde d’ogni provenienza, ridona grazia al mondo, insegue un ideale di bellezza che come ogni utopia non scende a patti col reale, è irrispettosa e caduca. Come ogni sogno, come il fuoco d’ogni ideale superato, rimane il lavoro di note suonate con sapienza, qualcosa, tra le maglie della vita e i filtri del cuore, sospeso e sollevato, superiore al tempo che scorre. Si apre con una immaginifica introiezione, paesaggi austeri e rarefatti, parole forti sussurrate a fil di voce, questa Elegia. L’omonimo componimento, accompagnato da pochi strumenti ricercati e da mani raffinate, svela un Conte raramente tanto intenso e raccolto. Sandwich man, riporta alla memoria tempi lontani e diversi, persi su carta ingiallita, riporta la mente agli albori del cortometrggio. Conte si fa abissale e immaginario in Chissà, con note d’angelo descrive aperture atlantiche e le vicissitudini delle anime migranti. In Molto lontano il tono si avvolge d’ombra, incupisce, e si ritrova un certo antico gusto per l’intreccio di parole, che tra le dita dell’Avvocato sembrano nate ad incastro. Poi molto altri ritratti, immobili, eterei, in grado di riportare la dimensione statica al centro di un mondo ansioso e convulso, consapevolezza nel linguaggio universale del sogno. Bamboolah è il seducente ritratto dell’animo umano, del sentimento in bianco e nero che muove piano come le dita sul pianoforte. India, è inebriante assemblea di profumi ed essenze, di cannella, sandalo e garofano, attraente di aperture geografiche, dell’immanenza delle cordigliere d’Asia.
FORME DI ARTIGIANATO SOPRAVVISSUTE ALL'ERA POST-FORDISTA (il cuore aiuta)
La nostalgia è un vecchio pianoforte spento, stanco e malinconico. Malinconia è l’incontro tra lo sguardo sornione e la nostalgia dei tempi passati, diciamolo Avvocato, per un attimo ha sussultato e s’è guardato alle spalle. Abisso, nostalgia fonda ed ancora più forte in questo racconto tenebro, in quest’ultima immaginifica suggestione, che lascia la vecchia e beffarda ironia a due soli brani: Frisco, che non a caso è l’unico brano del disco ad essere imparentato col Jazz e con le ultime produzioni contiane, e la Vecchia giacca nuova, un analisi del teatro sociale più che una canzone. L’ultima brace intiepidisce al vento di questa nuova e buia notte, che è splendidamente onorata e dipinta dalla penna elegante di questo magnifico artigiano. Per chi non si fosse mai addentrato nella speziata bottega di Asti, questa non è la porta che mi sento di suggerire, da altre finestre si possono ammirare visuali di maggior splendore e affabilità. Come ogni opera consapevole, che vive in sé stessa, frutto di viva umanità, questa Elegia può risplendere e angosciare, far ridere e piangere e, come i lavori più appassionati, far ridiscutere i confini dell’Arte.

domenica, novembre 12, 2006

Estate pellegrina...

L’idillio di salsedine e muscoli, forza e sudore ormai pervadeva i giorni assolati e peregrini passati per lande desolate. Ed il sole saliva e scendeva in continuazione e solo la brezza mitigava il tepore insistente dell’antico mare. Passeggiate arcadiche in cerca dell’idillio, ogni notte coricarsi sotto un cielo di stelle, sotto una coperta di sogni, ma il sogno pur indossando le differenti sue maschere cela sempre un desiderio solo, di trovar ciò per cui si va cercando.. Ormai le gambe stanche, le mani stanche e gli occhi stanchi più la rotta non tenevano e nemmeno il peregrinare, nemmeno la sabbia che il biondo vento del sud portava ai nostri occhi ci scuoteva più e i meriggi immersi nella macchia mediterranea e nelle tamerici ci rendevano saporiti come antichi pellegrini ora pronti allo spiedo. Ma una notte nel tempo perduto solo il silenzio dell’incanto rimase a farci compagnia. Il mattino giunse gonfio di foschia e negli stenti della fame ci trovammo dispersi nel mare su uno zattero di legni, e suoni di sirtaki ad accompagnarci, danze popolari delle terre perdute, lontane ormai all’orizzonte. Frutti dolci e acini d’uva croccanti di cui ingozzarsi ristorarono le nostre incredule anime ormai salpate e non aveva più senso chiedersi se si era vecchi o giovani, costretti o liberi in quelle vesti e in quei ruoli, non aveva senso farlo li, davanti al benevolente Mediterraneo. Mediterraneo, come le delusioni che si inzuppano d’acqua salata, come i pensieri che evaporano lentamente, come noi, ormai trascese le nostre membra, nulla più che acqua e sabbia al cospetto del mare. Un giorno dalle stesse acque emerse un viandante dorato dalle ittiche forme pieno di erbe e pietre marine, e dopo essersi arenato al sole con noi, dopo giorni di totale mineralità, mi si rivolse con tono abissale chiedendo..Perché non portasti all’avvento del tuo pregrinare con te i tuoi sentimenti? Come la neve risponde al sole io risposi lui dicendo.. provai a mettere i miei sentimenti in una piccola scatola per portarli con me, ma essi non avevano confine e fu difficoltoso, così preferii disperderli nelle acque del mare… mentre tutto ciò accadeva suonavano leggiadre e quasi evanescenti come flebile brezza le dolci armonie di Demis Roussos.