domenica, febbraio 11, 2007

L'ULTIMA ESTATE DI KLINGSOR di Herman Hesse

Lasciando parzialmente le giovanili velleità romantiche, nel 1919, Hesse, in completa solitudine, si trasferisce nel piccolo borgo di Montagnola nel Canton Ticino, rifugio dalla Germania nazista e splendido pertugio da cui vagheggiare l’amata Italia, con i suoi colori pastello e le sue tiepide giornate di sole. L’esotico (agli occhi di un tedesco) paesaggio ticinese, con la sua natura vitale e policromatica, i suoi profumi, la pacata cordialità dei luoghi e della gente, riversa tutta la propria suggestione nella penna del grande scrittore, che compone uno dei quadri più deliranti e immaginifici della sua intera esperienza. Il naturalismo caratterizzante le opere acerbe viene qui sgretolato, la struttura compositiva e il linguaggio intessono una trama fortemente espressionista che lascia spazio al colore, alla forma, e alla percezione, in un rutilante acquarello di essenze splendenti.

Un’estate infuocata ed intensa era iniziata. I giorni roventi, seppure lunghi, se ne fuggivano avvampati come bandiere in fiamme, alle notti di luna brevi e afose si alternavano brevi e afose notti di pioggia, le settimane splendenti trascorrevano deliranti come rapidi sogni, sovraccarichi di visioni.

Iniziava così l’ultima estate del pittore Klingsor, anima irrequieta e discussa, un ultimo intenso sorso di vita - vita ebbra e folle - vissuta fino in fondo, come un bicchiere di vino rosso robbia, sino all’ultima goccia. Il pittore ormai quarantaduenne ritorna, in quell’ultima stagione della propria vita, nei luoghi “mediterranei” e caldi in precedenza vissuti e vagheggiati, torna per abbandonarsi in una ultima seducente e vivida estate, un’estate in cui perdersi nell’intensità delle visuali del paesaggio, nelle note intense di un vino cinabro, nella conturbante sensualità di un nuovo amore, nella folle poesia dei colori. Profumi, sapori, esotismo, i moduli e gli stili di Hesse convergono in quest’opera pittorica dal tratto intenso. Si mischiano nell’aria delle serate trascorse desideri sensuali e presagi di morte, brama del futuro e coscienza della fine. Uccidere la vita con le proprie mani prima che l’ombrosa civiltà occidentale la trascini con sé, nel suo incipiente declino, nel suo lento tramonto. Klingsor nelle numerose lettere, nel fresco profumo dei crotti, nel succo d’uva sincero, nelle vivande frugali, nell’annullamento dell’Io nella natura, è sempre perseguitato dal presagio e dall’ombra della morte e solo vivendo, vivendo dissolutamente, sembra riuscire a tener colmo, almeno per un poco, quel vuoto.

Brindarono; cupa l’ombra sorrise dalle sue profonde occhiaie e d’un tratto qualcosa attraversò la sala, come un vento, come uno spirito. D’un tratto la musica fu muta, all’improvviso, come dissolta, i ballerini erano volati via inghiottiti dalla notte e la metà delle luci si era spenta. Klingsor diresse il suo sguardo alle porte scure. Fuori stava la morte. La vedeva campeggiare. La fiutava. Come gocce di pioggia sulla polvere di una strada di campagna, questo era l’odore della morte. Allora allontanò da sé la coppa, spinse via la seggiola ed uscì lentamente dalla sala, andandosene fuori, nel giardino cupo, solo, nell’oscurità, mentre lampi guizzavano sulla sua testa. Il cuore gli pesava greve nel petto, come pietra su una tomba.

Il racconto prosegue su linee altere, nella sua sottile denuncia, pervaso da una hessiana contrapposizione ai valori borghesi, all’uomo occidentale: stanco, avido, sfrenato, puerile, impietosamente fermato da Klingsor nell’ultimo autoritratto, poco prima che venisse la morte. Pochi giorni chiuso nella bellezza dell’abitazione di pietra (Casa Camuzzi?), dedito solo alla frantumazione, alla scomposizione ossessiva del proprio Io, al ritratto blasfemo della sua identità e con essa dell’uomo della tarda civiltà: il moribondo uomo europeo che vuole morire, pieno di una infantile paura della morte e pieno di una spossata disponibilità a spegnersi. In quei giorni di furibonda tensione Klingsor, diviene - tipico alter ego Hessiano - crucciato e mosso dagli scandalosi avvenimenti che scuotevano la schiena della vecchia Europa, ferito nella sua fanciullesca sensibilità. Presagisce l’ora ormai tarda, gode il tramonto dal suo spoglio davanzale di pietre, e nel verde tramonto del sole, vede quello dell’Uomo e nel tramonto dell’uomo, vede l’avvento di una nuova speranza, di una nuova rinascita.

“Ognuno ha le sue stelle” disse Klingsor lentamente, “ognuno ha la sua fede. Solo ad una cosa io credo: al tramonto. Viaggiamo in una carrozza sull’orlo dell’abisso e i cavalli si sono fatti ombrosi. Noi siamo al tramonto, tutti, noi tutti dobbiamo morire e rinascere, la grande svolta è per noi giunta. E’ dappertutto la stessa cosa: la grande guerra, la grande trasformazione nell’Arte, il grande crollo degli stati dell’occidente. Da noi, nella nostra vecchia Europa, tutto ciò che di buono e di peculiare avevamo è morto; la nostra bella ragione è divenuta follia, il nostro denaro è carta, le nostre macchine sanno soltanto sparare ed esplodere, la nostra arte è suicidio. Noi tramontiamo, amici, questo ci è dato in sorte… ”

Hesse in queste poche pagine supera sé stesso, supera le tradizionali dicotomie che avevano caratterizzato la produzione precedente (Amicizia, Il miglioratore del mondo, Sotto la ruota, Demian) e successiva (Narciso e Boccadoro, Il lupo della steppa), scioglie le cristallizzazioni legate alla descrizione nitida e semplice, per avventurarsi in un magmatico policromatismo visivo, in una ridefinizione continua dell’identità, non più scissa da attrazioni bipolari, ma confluente nell’Uno e nel tutto. Come poi in Siddartha (1922), anche in questo vivissimo racconto si prefigurano soluzioni vicine all’olismo delle religioni orientali, ad un tutto organico e interrelato, ad uno sconosciuto Panta rei, limpidamente riconoscibili nell’immagine del grande fiume osservato da Siddartha, nelle pagine conclusive dell’omonimo romanzo. Soluzioni che qualche studioso si affrettò a definire semplicistiche e adolescenziali (L. Mittner, C. Cases), qualcun altro, come “un'argentea ragnatela di banalità” (A. Chiusano), trascurando la portata emotiva, il trasporto, che quelle stesse pagine suscitavano, ignorando, non incolpevolmente, i laceri postumi della prima guerra mondiale, e la precaria instabilità psichica in cui giaceva Hesse, separato dalla famiglia e avviluppato nella sua malattia. Per via della loro reale essenza, della loro natura analitica, adolescenza e semplicità, nello scrittore tedesco, non possono certo essere ricondotte ad accezioni tanto riduttive. Hesse mai potrà essere definito uno scrittore per adolescenti, ma per tutta l’esistenza, adolescente egli stesso, cosciente vittima di un cronico stato di purezza infantile. Adolescenza, purezza e infanzia, nel senso dell’intransigenza e dell’ostinazione, del mettere in perenne discussione gli ambigui compromessi, le convenzioni tramandate e le accomodanti certezze della maggioranza. Lo stesso Hesse scriveva in una delle lettere del suo sterminato epistolario: “Non esiste altra via per lo sviluppo e l'attuazione che l'interpretazione, quanto più possibile perfetta, del proprio essere … Dato che tale strada è resa difficile da molti ostacoli, sia morali che di altro genere, e dato che il mondo ci vede più volentieri standardizzati, uniformati e deboli, che non caratterizzati da una forte personalità, chiunque si differenzia dalla media, non può fare a meno di affrontare una dura lotta per la vita … Chiunque crede di poter non tenere conto delle convenzioni e delle esigenze della famiglia, dello stato e della comunità, deve essere pienamente consapevole che lo fa a proprio rischio”. Ed Hesse non smise mai di credere nella sua letteratura vivida ed emozionale, non smise di credere che l’espressione chiara e limpida potesse rapire più cuori e toccare più anime, non si fermò dinanzi al rischio di rimanere solo, espose sempre la propria anima nuda agli occhi forestieri. Nell’estetica tradizionale esistono due modi per avvicinare l’opera d’arte: un approccio cognitivo e un approccio relazionale. Nel primo caso l’apprezzamento è guidato dalle conoscenze razionali acquisite sull’opera, nel secondo l’osservatore riduce la distanza dall’opera osservata, lasciandosi alle emozioni, al trasporto e alle vibrazioni che l’opera stessa sa trasmettere, diviene parte attiva e compresente, riempie l’opera, la parola, la nota di significati propri. Ecco, allora, la chiave di lettura adeguata per cogliere appieno la raffinata natura dell’Hesse scrittore e la sensibilità intellettuale dell’Hesse uomo: un approccio basato sull’empatia e sulla capacità di abbandonarsi all’Arte come pura espressione del sé. In uno dei suoi saggi letterari, lo scrittore tedesco, quasi a prender posizione verso le critiche che i sacerdoti e gli accoliti della narratologia e dell'ermeneutica muovevano (ed avrebbero mosso) alle sue opere, affermò: “La bramosia di venire a capo dell'arte e della poesia mediante analisi critica ha ridotto notevolmente la capacità elementare di sapersi abbandonare, di saper guardare e di saper ascoltare. Interpretare è un gioco dell'intelletto, un divertimento spesso, assai bello, che si addice a persone sagaci, che non hanno familiarità con l'arte, ma che possono leggere e scrivere libri sulla plastica dei negri o sulla musica dodecafonica, ma non trovano l'accesso all'intimo di un'opera d'arte, perché si fermano davanti alla porta, tentano di aprirla con cento chiavi e non si accorgono che è aperta”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Perche non:)