sabato, novembre 11, 2006

SINTOMI & CAUSE

La critica al paradigma industriale muove nella maggioranza dei casi a partire dai negativi effetti dell'inquinamento. L’agricoltura di oggi, intensiva e industriale, non ha ricevuto, e non riceve, trattamento diverso: le critiche rivoltegli vertono nella maggior parte dei casi sull’uso dissennato di prodotti chimici e idrocarburi. Non c’è di che stupirsi; basterebbe sfogliare un qualsiasi manuale tecnico e prendere nota dei quantitativi di sostanze di sintesi che vengono consigliati per ottenere “rese soddisfacenti”. I dati riportati sono talora scandalosi e lo sarebbero anche agli occhi di un individuo poco esperto. Chi, come me, ha sempre risieduto in campagna e ha avuto modo di conoscere altri ritmi e altri metodi di coltivazione, un’agricoltura a “bassa intensità”, non può che rimanere sconcertato alla lettura di un odierno manuale “tecnico”, che suggerisce la somministrazione di tonnellate di prodotti di sintesi per ettaro. Fortunatamente la vecchia generazione di agronomi, periti agrari ed agrotecnici, sta lentamente rivedendo le proprie posizioni, alla luce dei numerosi effetti negativi che questa agricoltura produttivistica ha attirato anche sulle sue stesse fonti. Nonostante ciò, il paradigma industriale a tutt’oggi conta un alto numero di seguaci e discepoli che, con buona probabilità, non osservano la realtà e attendono che la storia renda ancor più evidenti i deleterei effetti già palesi. I diserbanti, i concimi di derivazione chimica, gli anticrittogamici, gli acaricidi, sono solo alcune delle molte sostanze che agli occhi del moderno agricoltore appaiono insostituibili. Basti pensare ai concimi azotati che oltre ad inquinare le acque di falda rendendole inabitabili e tossiche, hanno comprovati effetti negativi anche sull’ozono atmosferico. Una delle più recenti ricerche riguardo l'uso di composti azotati in ambito agricolo, a previsto nel decennio 2010/2020 un aumento nell’impiego di concimi azotati del 1000% (Leone, 2002) e questa misura rende chiara la necessità di rivedere i paradigmi dell’agricoltura. Un’agricoltura che all’alba del nuovo millennio inquina quanto e in certi casi più dell’industria e lo fa in maniera perversa avvelenando le basi vitali su cui si fonda, svilendo la natura e annichilendo il suo stesso cuore. Un primo problema nasce dalla storia e dalla tradizione della medicina occidentale che ha sempre preferito risparmiarsi al dolore provvedendo direttamente alla sua eliminazione. Va ricordato che il dolore è un sintomo e non una causa, l’eliminazione del dolore non ha nessun risvolto diretto sulla causa generante, sul motivo che lo determina, in parole semplici eliminare il dolore non significa essere guariti, ma solo sentirsi meglio. Gli americani - come notava sarcasticamente Marcello Parisini in un recente convegno sulle fisiopatie vegetali - sono soliti risolvere i loro problemi eliminando i sintomi e non intervenendo sulle cause cosicché colorano i prati di verde brillante quando l’erba ingiallisce. Questo esempio estremo serve solo a comprendere meglio la parziale utilità di interventi sui sintomi e a sottolineare come, anche in agricoltura, intervenire sugli effetti evidenti sia la regola e non l’eccezione. Le sostanze chimiche utilizzate in agricoltura sono state sino a qualche decennio fa adoperate per evitare il manifestarsi di sintomi che avrebbero compromesso le rese o la loro vendibilità. Si è sempre attribuita maggiore importanza all’eliminazione visiva dei sintomi e non si è mai posto peso all’analisi e al controllo delle cause. Molti trattamenti chimici di protezione delle piante da patogeni potrebbero essere oggi banalmente evitati se, tramite adeguati mezzi agronomici, fossero poste a controllo le cause delle patologie. Un esempio valga per tutti: la piralide del mais. Su questo approccio preventivo puntano oggi le nuove correnti dell’agricoltura sostenibile che vorrebbero riattualizzare certi vecchi interventi agronomici, come le rotazioni, gli avvicendamenti e le consociazioni che possono ridimensionare gli stress a carico del terreno, l’esposizione ai patogeni e introdurre una regolazione naturale degli organismi patogeni. In altro riguardo, se un azienda agricola venisse gestita in modo più rispettoso e razionale le piante godrebbero, già per queste cautele, di un miglior stato di salute, necessiterebbero di meno cure e minore introduzione di energia ausiliaria da parte dell’uomo. Il maggiore spazio che tali tendenze stanno guadagnando, grazie ad un maggior riconoscimento da parte della società e di una revisione del percorso formativo dei tecnici in atto nei paesi più sensibili, lasciano spazio alla speranza che questo approccio erroneo, che identifica nei sintomi il male da curare, venga lentamente ma progressivamente abbandonato. La seconda questione offre maggiori ambiguità e non pare di altrettanto facile risoluzione. Il dilemma è intrinseco all'agricoltore stesso, che dimentica il proprio ruolo, la sua etica di lavoro, il suo compito di illuminato giardiniere (Turri, 1998), dimentica facilmente le cautele consigliate dall’esperienza di molti lunghi anni, dimentica in nome di maggiori guadagni a breve termine e di una maggiore garanzia nell’ottenimento di prodotti. L’estrema specializzazione a cui oggi gli agricoltori sono costretti riduce la capacità di sguardo globale sul proprio operato, così il vivaista coltiva solo fiori in serra, l’ortolano fa solo pomodori, il frutticoltore solo mele per lo più della stessa varietà. Questo processo conduce ad un illusione, porta a giocare una personale partita con il mercato, a ridefinire la produzione come una questione meramente privata che deve rimanere entro i limiti del proprio giardino, a non considerare i plausibili effetti indiretti e le ricadute sul sistema e sul territorio circostante. Come già asserito, l’inquinamento incosciente ad opera delle attività agricole non è solo una questione di alienata ripetizione della stessa coltura nel medesimo luogo, ma anche e soprattutto un problema deontologico e, più largamente, etico. Mi trovo spesso a ripetere che nell’attuale sistema economico, che vede il settore primario relegato ad un ruolo di marginalità, l’agricoltore si fa portatore di una missione, una scelta vocazionale non dissimile da quella del sacerdote o del volontario. I guadagni offerti oggi dall’agricoltura sono largamente insufficienti alla vita degli agricoltori, la maggior parte dei sistemi agricoli perirebbe senza l’aiuto delle sovvenzioni istituzionali. E’ bene ricordare un dato eloquente: la spesa per l’agricoltura dell’Unione Europea rappresenta metà dell’intero bilancio economico comunitario, in altre parole la metà dei soldi che l’Europa investe sono destinati alla sovvenzione di attività agricole. Questo dato sbalorditivo – per dirla con Marx - dichiara ufficialmente aperto il declino dell’attuale modo di produzione basato sulla quantità e sull’omogeneizzazione e apre le porte a nuove soluzioni. I soggetti che vogliano intraprendere una attività in agricoltura all’attuale stato dell’arte dovranno essere sospinti da un forte impeto di passione, se non da una vera e propria vocazione; oggi l’agricoltore svolge un lavoro impegnativo, responsabilizzante e non remunerativo che può essere sostenuto solo da un nuovo approccio alla pratica agricola più cosciente e romantico, orientato, direbbe Fromm, all’Essere e non più all’Avere.

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